Siamo nell'Inghilterra dei primi anni del '700, un paese che procede a grandi passi verso il ruolo di guida dell'Europa che avrà nei due secoli a venire. Sconfitta la Spagna agli albori del secolo precedente, imposto il proprio dominio commerciale sulle principali rotte atlantiche, l'Inghilterra aveva fronteggiato la rivoluzione di Cromwell uscendone rafforzata, come monarchia costituzionale "moderna". Le banche che nascevano copiose stavano allungando i loro interessi ovunque vi fosse la possibilità di un guadagno facile e garantito mentre la società inglese stava per prepararsi alla prima ondata di industrializzazione. Parliamo di un paese ricco, forte sui mari, temuto in guerra e contemplato in tempo di pace. In questo scenario quasi idilliaco, nel 1705, viene pubblicato per la prima volta un piccolo libretto ad opera di un medico olandese, Bernard de Mandeville, destinato però a scandalizzare tutti i suoi contemporanei: "L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti", che qualche anno dopo sarà ristampato con il titolo, più "politically correct" de "La favola delle api, ovvero i vizi privati e le pubbliche virtù". Per capire il motivo di tanto scandalo ( e renderci conto dell'attualità dell'opera di Mandeville ) pubblicheremo la favola a puntate, cercando di fornirne un adeguato commento. Traduzione tratta liberamente da Grande Antologia Filosofica, Marzorati, 1968, Milano
"Un numeroso sciame di api abitava un alveare spazioso. Là, in una felice abbondanza, esse vivevano tranquille. Questi insetti, celebri per le loro leggi, non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui si moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e d’industria. Mai api vissero sotto un governo piú saggio; tuttavia mai ve ne furono di piú incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave infelici di una dura tirannia, né erano esposte ai crudeli disordini della feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non potevano errare, perché il loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi.
Questi insetti, imitando ciò che si fa in città, nell’esercito e nel foro, vivevano perfettamente come gli uomini ed eseguivano, per quanto in piccolo, tutte le loro azioni. Le opere meravigliose compiute dall’abilità incomparabile delle loro piccole membra sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi né macchine, né operai, né mestieri, né navi, né cittadelle, né armate, né artigiani, né astuzie, né scienza, né negozi, né strumenti, insomma non v’è nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure non si servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto, non possiamo parlare di ciò che le riguarda se non impiegando le nostre impressioni. Si ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate, questi animali non conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma, poiché avevano dei re, e conseguentemente delle guardie, si può naturalmente presumere che conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai, infatti, degli ufficiali e dei soldati che si astengono da questo divertimento?
Il fertile alveare era pieno di una moltitudine prodigiosa di abitanti, il cui grande numero contribuiva pure alla prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e le ambizioni di altre api, che erano impiegate unicamente a consumare i prodotti del lavoro delle prime.
Malgrado una cosí grande quantità di operaie, i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro potevano a mala pena mantenere il lusso della metà della popolazione.
Alcuni, con grandi capitali e pochi affanni, facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri, condannati a maneggiare la falce e la vanga, non potevano guadagnarsi la vita se non col sudore della fronte e consumando le loro forze nei mestieri piú penosi. Si vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi, che non richiedevano né apprendistato, né sostanze, né travagli. Tali erano i cavalieri d’industria, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini, che non essendo essi stessi capaci d’ingannare, erano meno diffidenti. Costoro erano chiamati furfanti; ma coloro i cui traffici erano piú rispettati, anche se in sostanza poco differenti dai primi, ricevevano un nome piú onorevole. Gli artigiani di qualsiasi professione, tutti coloro che esercitavano qualche impiego o che ricoprivano qualche carica, avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano."
Si può subito notare come questa prima descrizione dell'alveare si possa applicare alla perfezione anche del mondo che viviamo quotidianamente e alla società di cui siamo parte. Un governo, certamente limitato da leggi, ma che pur esclude dalla cosiddetta "stanza dei bottoni" buona parte della popolazione, un tenore di vita che sembra più alto di ciò che tutte le api possono realmente permettersi, i più che lavorano per soddisfare i bisogni dei pochi, intenti, invece, a lavorare con il favore delle tenebre ( questa formula mi ricorda qualcosa, n.d.r. ) per accaparrarsi il profitto maggiore al minimo sforzo. E chi lavora davvero per mantenere l'alveare? Ci dice Mandeville che non si lamenta più di tanto, consapevole di utilizzare anch'egli qualche metodo sleale, su cui la società nella sua interezza sorvola volontariamente, per arrotondare i conti e vivere, comunque, nel benessere ( oggi si potrebbe tradurre in evasione fiscale, scontrini non battuti, ecc.. ).
Questo l'incipit. Se volete sapere come prosegue la vita dell'alveare, continuate a seguirci!
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