Fra le tredici lettere platoniche a noi pervenute, la settima è l'unica che venga attribuita con certezza al filosofo di Atene. In questo breve scritto, l'allievo di Socrate racconta della sua partenza alla volta di Siracusa, chiamato dall'amico Dione, con lo scopo di istruire il nuovo tiranno, Dionigi il giovane, alla filosofia, disciplina che il ragazzo trova affascinante e necessaria per governare e riformare la città. Platone, già anziano e ormai deluso dai tentativi fatti in precedenza di unire la filosofia alla politica, decide comunque di ascoltare la richiesta del vecchio amico e intraprende un viaggio lungo e pericoloso che lo porterà appunto in Sicilia, alla corte di Dionigi. Il tiranno, smanioso di discutere con il filosofo, intrattiene Platone fino a tarda notte, discorrendo degli argomenti più diversi. La mattina seguente, ci racconta proprio Platone, Dionigi sveglia all'alba il nostro filosofo mostrandogli con orgoglio uno scritto, composto durante la notte, in cui riassumeva tutte le discussioni avvenute la serata precedente. Fu proprio in questo momento che Platone capì che il ragazzo non aveva compreso a fondo il suo messaggio e, cosa ancora più grave, non aveva inteso cosa fosse la filosofia. La ricerca della verità per Platone non è solo una ricerca settoriale e specifica ma bensì la necessità di tracciare un percorso universale verso il viver bene, il vero scopo della politica socratica che nel suo discepolo trova completa fusione con la ricerca filosofica. Perché Platone giunse a questa conclusione? Perché Dionigi, nella sua smania di voler mostrare al maestro i suoi progressi, ha fallito proprio nel punto cruciale: ha affidato la sua ricerca alle parole scritte, ad un mezzo, un tramite, incapace di rendere in tutte le sue sfumature la discussione e i risultati che i due avevano conseguito la sera precedente. La parola, come ogni mezzo, circoscrive e limita il campo d'azione della ricerca; è utilissima, perché ci aiuta a ricordare, sviluppa la nostra ragione e ci permette di comunicare ma, quando la usiamo, dobbiamo essere sempre consapevoli dei limiti e delle condizioni di esistenza a cui la parola stessa ci consegna.
L'insegnamento platonico è tanto importante da potersi applicare senza sforzo a ciò che stiamo vivendo e vedendo. I giornali, le televisioni forniscono sempre una visione parziale della verità: lo fanno a prescindere, anche quando sono in buona fede, figuriamoci quando sono politicamente orientate verso un'orizzonte di senso ben definito. Le parole, così come le immagini, sono solo una parziale realtà che escludono tutto ciò che non viene detto ( i sentimenti, le emozioni, le motivazioni ) o inquadrato ( tutto ciò che resta fuori dal campo d'immagine della telecamera, volutamente o no ). Ecco allora che le colossali manifestazioni di ieri sparse per l'Europa diventano piccole espressioni di minoranze frustrate o, usando un termine molto inflazionato ultimamente, di analfabeti funzionali, il nuovo insulto radical chic che pretende di circoscrive il diritto alla libera espressione. La verità, direbbe Platone, è altrove: è sul luogo stesso dell'evento, accade senza che si possa racchiudere in un mezzo per impacchettarla e servirla bella e pronta. Diviene ora molto chiaro come l'assoggettamento acritico ai mezzi ( di comunicazione in questo caso ) sia allo stesso tempo la morte della ricerca, non solo filosofica ma politica, sociale, umana: affidarsi a ciò che ci viene somministrato equivale a restare in catene sul fondo della tanto celebre caverna e credere che le ombre sul fondo della stessa siano la verità. Ed ecco realizzarsi l'altra profezia platonica: chi riesce a fuggire e a vedere il sole, tornato nella caverna per liberare i compagni sarà preso per pazzo o, peggio, ucciso da chi è così assuefatto alla menzogna, o alla parziale verità, da aver paura di ascoltare. Non si tratta, naturalmente, di stabilire chi ha più ragione o meno ma, socraticamente, di procedere per domande e risposte: non, quindi, scontrarsi su quanti milioni di persone siano realmente scese in piazza ieri a Berlino, Londra, Zurigo e Parigi ma sul perché queste persone lo hanno fatto. Se abbandoniamo i preconcetti televisivi infarciti di politica sanitaria e analizziamo a fondo ciò che è accaduto forse saranno in tanti ad uscire dalla caverna e a vedere il sole; non la verità, sia chiaro, che non esiste già confezionata, ma il percorso critico che porta ad essa. E forse capiremo anche perché la formazione umanistico-filosofica viene messa nell'angolo dalla politica nostrana e non solo a favore di quella tecnico-scientifica: quest'ultima ci permette di costruire televisioni e computer, la prima di cercare la via d'uscita dall'antro platonico.
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