top of page
Stefano Tironi

La "Favola delle api" e la crisi economica. Parte quarta

Aggiornamento: 24 lug 2020


Incamminiamoci verso l'epilogo della nostra favola e vediamo cosa accadde quando Giove, stanco delle lamentele delle api riguardo la corruzione e i vizi presenti dell'alveare, decise di accontentare le loro preghiere..


"Egli disse: “Da questo istante l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza, essa aprirà gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si possono contemplare senza vergogna. Essi si sono riconosciuti colpevoli coi loro discorsi, e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità dei loro crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe, traditi dal loro colorito, immaginano che quando li si guarda, si legga sul loro volto malsicuro, la cattiva azione che hanno compiuto”.

Ma, per Dio, quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate diminuí ovunque. Ciascuno, dal primo ministro sino ai contadini, si strappò la maschera d’ipocrisia che lo ricopriva. Alcuni, che erano ben conosciuti già da prima, apparivano degli stranieri, quand’ebbero ripreso le loro maniera naturali.

Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, senza eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si condonava generosamente a coloro che non erano in grado di soddisfarli. Se sorgeva qualche difficoltà, quelli che avevano torto rimanevano cautamente in silenzio. Non si videro piú processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione. Nessuno poteva piú accumulare ricchezze. La virtú e l’onestà regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche coloro che prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare molto, disperati, abbandonavano la loro scrivania e si ritiravano.

La giustizia, che sino ad allora si era occupata di far impiccare alcune persone, concedeva la libertà a quelle che teneva prigioniere. Ma, dopo che le prigioni furono vuotate, diventando inutile la dea che ad esse presiedeva, costei si vide costretta a compiere una ritirata, con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si videro i fabbri, addetti alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si videro i carcerieri, i secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro scudiero, il carnefice, grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non era armata della sua spada immaginaria, bensí in sua vece portava l’ascia e la corda. La signora giustizia, con gli occhi bendati, seduta su di una nuvola, fu cosí cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e dietro di esso vi erano i sergenti, gli uscieri e i domestici di tale specie, che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati.

L’alveare aveva ancora dei medici, cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina, quest’arte salutare, non era piú affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí diffusi nell’alveare, che nessuno di essi aveva bisogno di una vettura. Le loro vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era quello che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate da paesi stranieri, essi si limitavano alle semplici medicine prodotte nel loro paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza donar loro, nello stesso tempo, i veri rimedi, si dedicavano a scoprire le proprietà delle piante che crescevano presso di loro.

I ricchi ecclesiastici, destati dalla loro vergognosa pigrizia, non facevano piú servire le loro chiese da api prese alla giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti coloro che non si sentivano capaci di adempiere questi doveri, o che ritenevano che si potesse fare a meno dei loro servizi, si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano occupazioni sufficienti per tante persone, se pur ne restava ancora qualcuna: giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente sottomessi al pontefice, il quale si occupava esclusivamente degli affari religiosi, abbandonando agli altri gli affari dello stato. Il reverendo capo, divenuto caritatevole, non aveva piú la durezza di cuore di cacciare dalla sua porta i poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal salario del povero. Era invece presso di lui che l’affamato trovava cibo, il mercenario il suo pane, l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto.

Il cambiamento non fu meno considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni. Divenuti economi e temperanti, i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se un’ape povera era venuta dieci volte per richiedere il giusto pagamento di una piccola somma, e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento, prima si era denominata una tale alternativa la “malversazione” del funzionario; ma ora la si chiamava, col giusto nome, una ribalderia manifesta.

Una sola persona era sufficiente per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del felice cambiamento. Non v’era piú bisogno di affiancare un collega per sorvegliare le azioni di coloro a cui si affidava il mantenimento degli affari. I magistrati non si lasciavano piú corrompere e non cercavano piú di facilitare i ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte piú lavoro di quanto non ne facessero prima parecchie persone.

Non era piú cosa onorevole il far figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle botteghe dei rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro carrozze, le vendevano a poco prezzo. I nobili si liberavano di tutti i loro superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne, per pagare i loro debiti.

Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano piú degli eserciti all’estero. Non curandosi piú della stima degli stranieri e della gloria frivola che si acquista con le armi, non si combatteva se non per difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e alla sua libertà."


Non appena il vizio e la corruzione lasciano l'alveare ecco che accade l'impensabile: il tenore di vita di tutti gli abitanti si abbassa drammaticamente. Non vi sono più dispute legali, né processi, né incarcerazioni: così avvocati, giudici e guardie si trovano senza lavoro e abbandonano l'alveare; i medici non si curano più delle loro furberie ma esclusivamente dei loro pazienti e delle cure da prestare. Gli uomini di chiesa, abbandonati sfarzo e viltà, si dedicano alla cura delle anime e all'assistenza dei fedeli e dei bisognosi; i sacerdoti che non si rispecchiavano nella missione ecclesiastica lasciavano l'incarico e l'alveare. Anche a corte i funzionari si occupano solo dell'amministrazione della "cosa pubblica", lavorano alacremente senza più cercare di ingannare e rubare; dove prima lavoravano in tre ora basta una sola persona e neppure sono necessari i controlli sullo svolgimento delle attività lavorative. Attenzione però: i fabbri non devono più costruire recinzioni, lucchetti e celle per prigionieri e la loro professione cade in disgrazia, come chi lavorava nei tribunali. Nessuno si reca più all'osteria, e la moglie dell'oste non può permettersi i vestiti costosi e lussuosi di prima mentre nessuno si cura più dell'arte e dei palazzi, che cadono in rovina: sarti, architetti, produttori di vino lasciano l'alveare per non fallire. Ma la mancanza di questi artigiani si ripercuote immediatamente anche sui nobili. Ormai senza profitto, sono costretti a vivere di quello che ancora posseggono ed, infine, adagiarsi nella miseria di una vita povera e morigerata, in cui il superfluo è solo un ricordo lontano.

Insegnamento importante, quest'ultimo: se la ricchezza circola dal basso del sistema sociale ecco che tutti ne traggono beneficio ma non appena il meccanismo si inceppa tutti i cittadini, prima o poi, cadono in disgrazia. Peccato, diremmo noi oggi, che l'Unione Europa, o meglio, i tecnici di Bruxelles, dimostrino di non aver letto il nostro Mandeville.


A domani per la conclusione della favola!

20 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page