Eccoci giunti al termine del nostro viaggio nell'alveare. Riprendiamo il filo del discorso..
"Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto!
Coloro che facevano delle spese eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a ritirarsi. Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro il necessario.
Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò. I palazzi incantevoli, i cui muri, simili alle mura di Tebe, erano stati elevati con armonia musicale, divennero deserti. I potenti, che prima avrebbero preferito perdere la loro vita piuttosto che veder cancellare i loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi, schernivano ora queste vane iscrizioni. L’architettura, quest’arte meravigliosa, fu del tutto abbandonata. Gli artigiani non trovavano piú nessuno che li volesse impiegare. I pittori non diventavano piú celebri con le loro pitture. La scultura, l’incisione, il cesello e la statuaria non furono piú rinomate nell’alveare.
Le poche api che vi restarono, vivevano miseramente. Non ci si preoccupava piú di come spendere il proprio denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna, decidevano di non rimetterci piú piede. Non si vedevano piú le donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati d’oro. Torcicollo non donava piú delle grosse somme per avere del borgogna e degli uccelletti. I cortigiani, che si compiacevano di regalare a Natale alla loro amante degli smeraldi, spendendo in due ore tanto quanto una compagnia di cavalleria avrebbe speso in due giorni, fecero bagaglio e si ritirarono da un paese cosí miserevole.
La superba Cloe, le cui grandi pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a saccheggiare lo stato, ora vende il suo abbigliamento, composto dei piú ricchi bottini delle Indie. Ora sopprime le sue spese e porta tutto l’anno lo stesso abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono piú con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro, tutti gli operai che lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento e tutti gli artigiani che dipendevano da loro, si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe piú semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo piú costretta dall’infaticabile giardiniere, produce bensí i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce piú né rarità, né frutti precoci.
A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano piú né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell’industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non ricercarono piú la novità, non hanno piú alcuna ambizione.
E cosí, essendo l’alveare pressoché deserto, le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei loro nemici, cento volte piú numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il valore possibile, finché qualcuna di loro avesse trovato un rifugio ben fortificato.
Non v’era alcun traditore presso di loro. Tutte combattevano validamente per la causa comune. Il loro coraggio e la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria.
Ma questo trionfo costò loro tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto dello sciame, che si era indurito nella fatica e nel lavoro, credette che l’agio e il riposo, che mettono a sí dura prova la temperanza, fossero un vizio. Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, tutte queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un albero, dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà."
Mandeville commenterà la favola con una frase molto significativa: " chi vuole solo virtù e onestà si prepari per la caverna e per le ghiande". Lo scrittore olandese ci vuole naturalmente dire che ogni grande società si costruisce sul vizio dei privati, sulla voglia di arricchirsi e di potersi godere beni non strettamente necessari. Proprio questo disavanzo fra il necessario e il superfluo crea quella ricchezza che permette ad ogni cittadino, in misura naturalmente diversa, di poter "viver bene" e spesso oltre le proprie possibilità. In altre parole, laddove il vizio e la corruzione dilagano, il benessere cresce, impossessandosi di tutti i cittadini.
Resta da svolgere un'analisi più profonda, che ci riporterà ai giorni nostri. L'uomo, dalla comparsa del denaro, si è lentamente ma inesorabilmente trasformato in un essere economico, un homo economicus: ogni nostro gesto è frutto di un calcolo fra guadagni e perdite ( per esempio, il rischio di un certo comportamento viene spesso definito " perdita sopportabile" ), il nostro ruolo sociale è stabilito da quanto le nostre prestazioni vengono retribuite e, di conseguenza, quanto possiamo soddisfare capricci e bisogni superficiali. L'umanità è stata cresciuta, potremmo dire, nella logica del profitto, in cui anche le interazioni sociali divengono una contrattazione "economica", laddove anche i sentimenti e le emozioni vengono mercificate e vendute ( dal concerto musicale all'evento sportivo, il banchetto di nozze o la cerimonia di laurea fino al caso limite della prostituzione ). Un modo di pensare, potremmo dire, che controlla ormai da decenni i mercati globalizzati: è proprio qui che si intrecciano due aspetti molti interessanti. Da un lato vi è una realtà economica al collasso, basata sul profitto ad ogni costo, che costringe i grandi signori dell'economia a esigere una ripartizione della ricchezza nelle loro mani, pena il collasso del sistema intero ( vi ricordate i grandi benefattori che pregano Giove di infondere l'onestà? Non certo per questioni etiche, ma di interesse.. ). Dall'altra vi è la maggioranza della popolazione, abituata a godere di privilegi dovuti al benessere sociale, che pur lamentandosi dei vizi di chi possiede più di loro, si tengono stretti quel poco di ricchezza che sono riusciti a racimolare. Se ben ci pensiamo queste due tendenze sono destinate a collassare l'una sull'altra: introdurre "una nuova normalità" nel tentativo di attuare patrimoniali, nuovi processi lavorativi ( Smart-working su tutti ), accentuare ammortizzatori sociali togliendo l'aspetto produttivo alla vita umana, ridurre o annullare la circolazione del denaro contante, limitare gli spostamenti e la socialità sono tutte metafore moderne dell'impoverimento dell'alveare con lo scopo, chiarissimo, di accentrare più risorse nelle mani dei grandi padroni del capitale. Ma ciò che questi personaggi non capiscono è proprio ciò che le nostre care api non vedevano: la ricchezza e il benessere provengono esattamente dalla maggior circolazione di denaro, quel denaro che rende possibile i vizi e il superfluo. Privare il ceto medio della propria ricchezza significa suonare l'ultimo rintocco del capitalismo ed aprire una crisi molto più grande di una semplice congiuntura economica: significa dover ricostruire l'uomo oltre l'orizzonte del valore, del guadagno e del debito, annullare un modo di pensare ormai connaturato nell'umanità da secoli. Cosa significa pensare l'umanità oltre l'Homo economicus? Che sia proprio ciò di cui parlava Nietzsche quando profetizzava una nuova tavola di valori, svincolati dalla morale "giudaico-cristiana" del costo, del guadagno, del beneficio e della ricompensa ( nell'aldilà )?
Ovviamente non esiste risposta corretta per una popolazione nata, cresciuta e vissuta all'interno delle pratiche di senso del denaro; certamente, in questo senso, in un mondo dominato dalla logica del profitto in cui il capitale economico diventa divinità a cui rivolgersi per modificare gli equilibri sociali ( il Giove della favola ), suona molto più chiaro l'annuncio del profeta Zarathustra, che nelle pagine del capolavoro nietzschiano, urla davanti alla folla accorsa al mercato: "Dio è morto".
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