Nel 1770, con la pubblicazione della celebre dissertazione, iniziava un periodo florido ed essenziale per la filosofia, il kantismo. Il grande filosofo tedesco, autore delle tre famose critiche, diede inizio a quella "rivoluzione copernicana" che ribaltò definitivamente il rapporto fra oggetto e soggetto nella speculazione filosofica e pose i limiti invalicabili della conoscenza umana tracciando quel confine sempre da raggiungere, direbbe Heidegger, che è il noumeno o cosa in sé, assolutamente inconoscibile.
A distanza di 250 anni esatti, credo sia necessario fare nostre le riflessioni kantiane e applicarle a ciò che stiamo vivendo. La scienza, o meglio la ragion sanitaria, oggi è stata portata dalla politica in primo piano, eletta a verbo unico da seguire in modo asettico e acritico, verità insormontabile e definitiva. In altre parole, abbiamo demandato a presunti esperti detentori di questa sapienza quasi sacerdotale la nostra vita, le nostre abitudini e i nostri stessi diritti. Ci siamo poi accorti, con il passare dei mesi, che la ragion sanitaria stava fallendo: cure sbagliate, incertezze sulle terapie, litigi e discussioni fra medici su quasi ogni aspetto della presunta pandemia. In altre parole, la ragion sanitaria si è mostrata semplicemente fallibile, per usare un termine caro a Popper, soggetta a quella prassi di prova ed errore che già descrisse perfettamente Galileo. In realtà, come scienza, nulla le si può obiettare: è premessa insindacabile delle discipline scientifiche quella di poter sbagliare, di doversi correggere e di identificare quel limite invalicabile che non può trascendere. Proprio qui si annida l'errore: non è la ragion sanitaria a dover gestire la vita collettiva dell'umanità, ma semmai è l'uomo che deve appellarsi alla ragion sanitaria per gestirsi e preservarsi; così come, grazie a Kant, abbiamo compreso che non esiste oggetto in sé ma ciò che conosciamo dipende inscindibilmente dal soggetto conoscente e dalle sue facoltà, oggi sappiamo che non è la medicina a dover decidere della nostra vita ma la nostra vita a scegliere cosa fare della medicina.
Possiamo allora lasciare che la ragion sanitaria si appropri della nostra vita? Vogliamo davvero che soppianti le scelte politiche insite nella vita di tutti noi cittadini?
Insomma: che la scienza faccia il suo, mentre la politica fa altrettanto. Ma assumere la ragion sanitaria come strategia politica significa non riconoscerne il confine, aver cieca speranza verso una disciplina fatta per sbagliare e per correggersi; più in generale significa rinunciare a vivere, nell'attesa di una sicurezza che non arriverà mai.
La scienza, come la medicina, resta uno strumento di cui ci serviamo, una via per migliorare la nostra permanenza su questa Terra, a volte persino un'arma usata per affermare il nostro dominio sul pianeta per mezzo della tecnica; non possiamo permettere che lo strumento, l'oggetto, diventi padrone del soggetto che lo gestisce, dobbiamo evitare che la dipendenza in cui stiamo cadendo si tramuti in quella dialettica rovesciata fra servo e padrone così ben descritta da Hegel, tanto più che ci ridurremmo schiavi di un mezzo che non ha morale, etica o giudizio. Riprendere possesso della nostra vita e rimettere al proprio posto, fra i limiti di validità che le sono propri, la ragion sanitaria: ecco la grande battaglia a cui tutti siamo chiamati a rispondere presente.
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